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sabato 30 maggio 2020

L’America che non perdona

IL RACCONTO

L’America che non perdona

di Marco Bardazzi*

«Gentile Mr. Smith, avevamo in programma di ucciderla il 4 giugno. Purtroppo, il Covid ha cambiato i nostri piani. Le diamo un nuovo appuntamento per ucciderla il 4 febbraio 2021. Cordiali saluti». Il testo della decisione di questi giorni della Corte suprema del Tennessee sul caso di Oscar Franklin Smith non dice esattamente così, ma il senso è quello. Uno degli effetti collaterali (positivi) del Covid-19 negli Usa, è che ha messo in crisi anche la sempre prolifica macchina delle condanne a morte. Ma gli Stati si stanno riorganizzando e presto riprenderanno a uccidere i vari Mr. Smith in attesa nei bracci della morte. Qualche Stato non si è lasciato intimorire neanche dal coronavirus: per esempio il Missouri, che il 19 maggio ha eliminato con un’iniezione letale il condannato Walter Barton.

Una camera della morte con il lettino per l’iniezione letale, in un carcere dell’Arizona
Smith adesso ha altri otto mesi da vivere in attesa di morire, che vanno ad aggiungersi ai 30 anni già passati da quando fu condannato a morte per l’assassinio della ex moglie e dei loro due figli. Ormai è un settantenne che la società potrebbe tranquillamente lasciar morire in cella all’ergastolo (o anche valutare se non si sia guadagnato la possibilità di attendere la morte fuori da un carcere). Ma l’America della pena di morte non arretra di un millimetro. Il Covid è solo una temporanea battuta d’arresto: nei bracci della morte americani ci sono 2.620 persone in attesa di essere terminate con un’iniezione letale e gli arretrati dovranno essere recuperati in fretta. Anche se i ritmi non sono più quelli di fine anni Novanta-inizio anni Duemila, quando le camere della morte lavoravano a pieno ritmo. In quegli anni del picco di esecuzioni vivevo e lavoravo come giornalista negli Usa e nessuno tra i tanti temi che ho raccontato mi ha mai colpito più della pena di morte.

L’America ci affascina e ci interroga anche per le sue innumerevoli contraddizioni, come testimoniano questi giorni di tensione e scontro sui temi del razzismo, dell’abuso di potere, della libertà di espressione e di protesta. Con tutto quello che è successo negli ultimi anni, la pena di morte sembra quasi un tema secondario, lontano dai riflettori e dalle priorità del momento. Eppure, l’incapacità di rinunciare alla pena capitale resta la più vistosa e drammatica delle contraddizioni, soprattutto per l’insistenza nel negare la possibilità di una riabilitazione in carcere e nel non considerare mai chiuso un caso fino a quando non si è data ai familiari delle vittime la possibilità di quella che viene chiamata closure. La presunta pace che porterebbe il sapere che finalmente vendetta è fatta. Occhio per occhio, dente per dente. È vero, c’è la pena di morte anche in Cina o in Arabia Saudita. Ma inevitabilmente si pretende di più da un Paese che si professa culla della democrazia e che è stato fondato sulla promessa di proteggere «Life, Liberty and the pursuit of Happiness».

Questo grafico mostra il totale e il numero annuale di esecuzioni avvenute negli Usa dal 1976 al 1° giugno 2020
Di pena di morte americana è quindi giusto continuare a parlare, anche ora che i numeri delle condanne eseguite sono diventati molto piccoli. Perché se c’è un tema su cui è sbagliato concentrarsi sui numeri, è proprio questo. L’ho capito quando l’argomento generico “pena capitale” è diventato per me nomi, volti, storie. Due in particolare.

Una tiepida sera del settembre 2000, un gruppo di giornalisti italiani tra cui chi scrive, insieme a Oliviero Toscani, protagonista delle campagne contro la pena di morte firmate Benetton, si sono ritrovati in un luogo insolito: il parcheggio all’esterno del Greensville Correctional Center, a Jarratt, il luogo dove la Virginia mette a morte i propri dead men walking. Un posto sperduto in mezzo ai boschi, dove siamo arrivati in tanti per l’esecuzione di un italoamericano, Derek Rocco Barnabei. Avevo intervistato Derek Rocco varie volte nei mesi precedenti, ho seguito la sua vicenda di condannato che fino all’ultimo istante si è proclamato innocente dell’omicidio che gli veniva attribuito e quella sera ero là per raccontare il triste epilogo di una storia che si ripete nelle camere della morte di mezza America.

Il copione è più o meno sempre quello: il detenuto disteso sul lettino, gli aghi infilati nel braccio, una dose di sodio tiopentale che entra nelle vene per fargli perdere conoscenza, seguita dal bromuro di pancuronio per paralizzargli i muscoli e infine dal cloruro di potassio per provocare l’arresto cardiaco. La differenza, per me, era che stavolta quel detenuto non era solo un numero. Era una persona con la quale avevo scambiato lettere e telefonate, di cui conoscevo la famiglia e gli amici e che mezz’ora prima di morire, parlandomi per telefono dalla cella al fianco della camera della morte, con una voce carica di paura e adrenalina difficile da dimenticare, mi aveva detto: «Fai in modo che non si dimentichino di me».

L’italoamericano Derek Rocco Barnabei, giustiziato nel settembre del 2000 presso il Greensville Correctional Center di Jarratt, in Virginia
Nei mesi successivi, pensando a Derek e riflettendo su come continuare a raccontare la pena di morte dando un volto a persone che troppo spesso sono solo fantasmi, mi sono messo alla ricerca di altri “italiani d’America” nel braccio della morte. Non che il fatto di avere radici italiane significasse qualcosa di particolare, nel panorama degli oltre 3.400 uomini e donne che negli Usa in quel momento passavano il tempo aspettando di essere giustiziati. Ogni vita umana che se ne va per iniezione letale, sedia elettrica, camera a gas o plotone d’esecuzione (un paio di Stati lo prevedono ancora), ha un valore in quanto tale, non perché porta un cognome italiano o messicano, una pelle bianca, nera o quant’altro. Ma il caso Barnabei, con le folle in piazza in Italia a seguire in diretta l’esecuzione in Virginia, aveva dimostrato che inevitabilmente negli italiani scattava un motivo di attenzione in più nel sapere che si parlava di un figlio di immigrati delle nostre terre, piuttosto che di un ragazzo messicano di una gang di Los Angeles.

È così che dalle sterminate liste degli ospiti del braccio della morte, è saltato fuori un “signor Rossi” in attesa del boia in Arizona in un posto con un nome che a sua volta richiamava l’Italia: Florence. Un personaggio impensabile che nel tempo è diventato mio amico.

Florence è una cittadina di seimila abitanti, tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione sull’asse Phoenix-Tucson, che sognava di diventare protagonista di una corsa all’oro sulle vicine Superstition Mountains. Quando l’oro si è rivelato solo una superstition, la città si è buttata su un altro business: quello delle prigioni. È dalla fine dell’800 che l’Arizona custodisce i detenuti a Florence. Durante la Seconda Guerra Mondiale vi vennero realizzati anche campi di detenzione per i prigionieri nemici e ancora oggi, nel museo locale, si possono ammirare foto ingiallite di volti siciliani, rosari, immagini della costiera amalfitana: sono le reliquie che ricordano la prigionia dei molti italiani che trascorsero qui lunghi mesi, talvolta anni di detenzione nel deserto. Dal 1910 a Florence l’Arizona ha anche cominciato a giustiziare i propri condannati a morte. Una faccenda che un tempo si sbrigava in fretta, con le impiccagioni. Ma nel 1930 la prima donna a venir giustiziata, Eva Dugan, restò decapitata e l’orrore per l’accaduto spinse le autorità a passare alla più “civile” sedia elettrica. Oggi lo Stato ammazza con l’iniezione letale, ma lascia aperta anche l’opzione della camera a gas.

Una veduta dall’alto dell’Eyman Complex, il carcere più protetto di tutto lo Stato dell’Arizona che si trova nella città di Florence
Le prigioni di Florence sono più o meno accessibili secondo la pericolosità dei loro ospiti. Il carcere più protetto di tutti è l’Eyman Complex e al suo interno l’unità più isolata è la Special Management Unit II (Smu-II), dove convivevano detenuti di massima pericolosità e i condannati a morte dell’Arizona. Nel 2004 sono entrato nella Smu-II per andare a incontrare, dopo tre anni di scambi di lettere e qualche complessa telefonata, una delle 128 persone che là dentro erano in attesa di essere ammazzate: Richard Rossi, Richie per gli amici, il detenuto numero 50337 del sistema dell’Arizona State Prisons.

Richie era il figlio di Andrea “Andrew” Rossi, emigrato negli Usa da Roma, e della napoletana Angelina Rossetti. La coppia lo mise al mondo il 30 giugno 1947 a Brooklyn e il piccolo Richard era cresciuto nella vivace comunità italoamericana locale, prima di trasferirsi a Phoenix, in Arizona, dove ha commesso l’errore che è costato la vita a un altro e ha rovinato per sempre anche la sua. La notte del 29 agosto 1983, schiavo degli effetti della cocaina, uccise a colpi di pistola Harold August durante un litigio legato alla vendita di una macchina per scrivere. Una vicina di casa di August fu colpita a sua volta, ma se la cavò.

Richard Rossi, italoamericano detenuto nella prigione di Florence, in Arizona, e condannato a morte per un omicidio commesso nel 1983. È morto per cause naturali prima dell’esecuzione
Richard Rossi ha sbagliato e non lo ha mai negato. Ma si è trovato chiuso per sempre in un luogo che non ammette la possibilità che un uomo possa cambiare, neppure dopo più di 20 anni di cella. Un posto dove non c’è spazio per il perdono e per una seconda possibilità. Dai tempi del suo processo, celebrato quando ancora alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, Richie ha aspettato paziente di morire di iniezione letale e ha riempito il tempo scrivendo a un gran numero di amici o mettendo su carta pensieri e analisi sul sistema carcerario, sotto forma di saggi o di poesie. Un suo libro, pubblicato in Italia con il titolo “La mia vita nel braccio della morte” (Tea Edizioni), è una delle testimonianze più dettagliate che conosco di come trascorre il tempo un condannato. Per 23 ore e mezzo, il mondo di Richie era una tomba di cemento di 3 metri per 2 metri e 20, senza finestre e con una porta di metallo traforato che non concedeva niente alla privacy. La mezz’ora restante era quella d’aria, in una gabbia solitaria all’aperto nei 40 gradi dell’Arizona, con l’unica compagnia di una pallina di gomma da tirare contro il muro, per fare esercizio.

Per parlare con Richie e gli altri detenuti, nella grande sala colloqui del carcere, occorreva quasi urlare con la bocca appoggiata a una sottile intercapedine metallica, l’unica fessura attraverso la quale i suoni potevano raggiungere l’interlocutore, dall’altra parte di un vetro antiproiettile. Prima di entrare nella sala, occorreva sottoporsi alla lunga trafila dei controlli attraverso barriere di filo spinato e cemento, dopo essersi assicurati di aver rispettato tutti gli articoli del regolamento. L’elenco dei divieti era lungo due pagine e prevedeva, tra le altre cose, l’obbligo di non indossare jeans e di lasciar fuori soldi, gioielli, oggetti metallici di ogni genere, persino pezzi di carta. Eppure, quando superavi le lunghe trafile burocratiche e arrivavi finalmente di fronte a Rossi, trovavi un uomo sorridente, che raccontava barzellette e sembrava sapere del mondo esterno più cose di chi vive la quotidianità senza vincoli e sbarre, ma in modo distratto.

Richie alla fine ha fregato lo Stato dell’Arizona: è morto di cause naturali, prima che lo ammazzassero. Nei suoi ultimi anni, aveva preso l’abitudine di spedire per posta alle mie figlie figurine di carta fatte a mano nelle sue lunghe ore vuote. Erano uccelli, angeli, quasi sempre creature con le ali. Era il suo modo di esprimere la voglia di volare di chi è costretto dentro una gabbia.


*Marco Bardazzi ha girato il mondo per un trentennio come giornalista. Per dieci anni ha raccontato l’America agli italiani da New York e Washington per l’Ansa, poi ha lavorato alla “Stampa” e ora guida la comunicazione di Eni.

mercoledì 20 maggio 2020

Luca Ricolfi: "Tre mosse per scongiurare la società parassita di massa".

"Tre mosse per scongiurare la società parassita di massa". Intervista di Gianni Del Vecchio a Luca Ricolfi 18/05/2020 

Il professore è categorico: deve cambiare tutto. "Snellire la burocrazia, un taglio drastico, immediato e triennale delle tasse, saldare entro 30 giorni i debiti della Pa. Facciamo come l'Irlanda"

Professor Ricolfi, la critica più diffusa al decreto Rilancio appena varato dal governo riguarda la natura essenzialmente assistenzialistica delle misure. Dei 55 miliardi messi in campo, c’è poco o nulla per far ripartire l’economia. L’ex ministro del Tesoro Giovanni Tria addirittura ha parlato di “investimenti zero”. Ma se l’economia non riparte, nei prossimi mesi l’Italia rischia davvero di essere il “malato d’Europa”. I mercati continueranno a risparmiarci o dobbiamo iniziare a temere?


Andando avanti sulla strada intrapresa, più che di “malato” d’Europa temo che dovremo parlare di “moribondo” d’Europa. Finché la caduta del Pil è “solo” del 10% e dall’anno dopo c’è una ripresa, sei solo malato. Ma se il Pil cade del 15-20% nel 2020, se nell’anno successivo non rimbalza perché la base produttiva si è ristretta, se la quota dell’export cala perché in questi mesi hai perso milioni di clienti, se il rapporto debito-Pil viaggia verso il 200% perché il denominatore è imploso, se lo spread vola perché i mercati pensano che non saremo in grado di restituire il debito, beh se tutto questo dovesse accadere allora questo non è essere malati, mi sembra.

Questo vorrebbe dire tornare indietro di mezzo secolo, prendere commiato da tutto quello che eravamo bene o male riusciti a costruire dopo la seconda guerra mondiale. Individualmente sopravviveremo quasi tutti, si spera, ma assisteremo alla progressiva demolizione del nostro mondo sociale: la società signorile di massa si inabisserà, come l’isola di Atlantide.

C’è il rischio che Germania, Olanda e falchi del Nord tornino a chiedere austerity?

Chiamarlo “rischio” è da inguaribili ottimisti, io parlerei di certezza. Il patto di stabilità è solo sospeso, e possiamo star sicuri che nel 2021 l’Europa non ci consentirà di indebitarci con l’allegria che ora contagia il ceto di governo. E anche ce lo consentisse, nulla potrà evitare che a metterci in riga ci pensino i mercati. Già oggi lo spread è 100 punti sopra il livello pre-Covid.

Da queste pagine ha lanciato l’allarme: l’Italia post-Covid rischia di diventare una società parassita di massa, popolata da tanti non-produttori che vivranno in condizioni di dipendenza dall’assistenzialismo statale. Cerchiamo di fare un passo avanti. Come evitare di arrivare a uno scenario così terribile?

Prima di rispondere, vorrei fare una precisazione. Quando dico che i nostri governanti stanno più o meno intenzionalmente pianificando il passaggio a una società parassita di massa non ho in mente uno scenario in cui il 70% degli italiani se la spassa vivendo alle spalle del 30% che produce. Quel che ho in mente è semmai una situazione in cui la torta del Pil è così ristretta da trasformare i parassiti-signori di ieri nei parassiti-sudditi di domani. Detto brutalmente: gli assistiti non se la passeranno per niente bene. Non a caso ho evocato, giusto per dare un’idea, la Grecia e Cuba: sudditi come a Cuba, poveri come in Grecia.

Detto questo, torno alla domanda, come evitare di arrivare lì. Non so se siamo ancora in tempo, ma io vedo una sola possibilità: cambiare tutto, naturalmente cominciando dalla testa, governo e filosofia di governo.

Che significa cambiare tutto?

Dovessi riassumere con una formula, direi: provare a trasformare l’Italia da inferno burocratico a paradiso imprenditoriale. Una sorta di Irlanda mediterranea, dove chiunque voglia intraprendere un’attività economica può farlo senza ostacoli non necessari.

In concreto vuol dire essenzialmente tre cose.

La prima: renderci un paese normale quanto a burocrazia, eliminando la “presunzione di furbizia” che è ubiqua nella nostra legislazione, dal codice degli appalti alle infinite norme e procedure che asfissiano i produttori.

La seconda: un taglio drastico, immediato, e almeno triennale delle tasse.

La terza: saldare entro 30 giorni tutti i debiti delle pubbliche amministrazioni verso il settore privato, senza andirivieni bancari e fra enti pubblici. E’ incredibile che lo Stato faccia moral suasion sulle banche perché aiutino i produttori a indebitarsi, e non pensi che molte imprese devono indebitarsi precisamente perché lo Stato non paga i suoi debiti.

Entriamo più nello specifico sul taglio delle tasse. Meglio fare un’operazione di riduzione su imprese e autonomi o sul lavoro dipendente?

In tema di riduzioni fiscali la tendenza del ceto politico, di destra e di sinistra, è sempre stata (fin dal “Contratto con gli italiani” di Berlusconi) di puntare su riduzioni, anche molto modeste, che potessero toccare il maggior numero di beneficiari: Irpef, Iva, Imu, contributi sociali. Molta meno attenzione è stata riservata alle tasse che scoraggiano l’attività produttiva, ovvero Irap e Ires. E invece è da lì che si dovrebbe partire, anche puntando su benefici selettivi e concentrati, che privilegino le imprese che aumentano l’occupazione e, in questo momento, le imprese che rinunciano alla comoda strada di mettere in cassa integrazione i loro dipendenti.

Dico questo perché me lo suggeriscono i miei studi sulle determinanti della crescita in Occidente (è il tema del mio libro L’enigma della crescita), ma lo dico anche perché sono in contatto con tante persone che hanno un’attività, dal commerciante, al gestore di pizzeria, alla fisioterapista, fino al viticoltore. E da loro so che la decisione che devono prendere è drammatica: chiudere, o riaprire e scommettere sul futuro.

E che cosa le dicono?

Quasi tutti, specie se sono over 50 e sono in grado di sopravvivere decentemente senza lavorare, si chiedono: ma in queste condizioni, con nuovi costi, nuovi rischi (anche penali), e a voracità fiscale invariata, chi me lo fa fare?

La decisione di riaprire dipende poco dagli aiuti momentanei e limitati che possono ricevere in questo momento, e molto – moltissimo – dalle condizioni in cui dovranno operare nei prossimi mesi e anni. Queste condizioni includono aumenti certi dei costi, una fiscalità futura di entità sconosciuta, un rischio serio di guai giudiziari legati al rispetto del “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.

Lei lo ha letto il protocollo?

Dalla prima riga all’ultima, e ne sono rimasto sconcertato, per la farraginosità (e spesso inapplicabilità) delle norme che detta. Soprattutto sono rimasto sorpreso nel constatare che il protocollo è chiaramente pensato per la grande impresa, ma non è sottoscritto solo dai sindacati confederali e da Confindustria, bensì anche da una dozzina di associazioni professionali e datoriali più piccole, che paiono del tutto ignare dei problemi concreti dei loro associati. Come sociologo, sono colpito dal fatto che, anche nel mondo della produzione, si sia ormai verificato ciò che da tempo accade in posti come l’Università, o la sanità pubblica. Le regole dell’Università non le pensano gli studiosi, ma i manager-burocrati che la governano. Le regole della sanità non le fanno medici e infermieri, ma le fa l’immenso apparato amministrativo che se ne è impossessato.

Credo che nessun artigiano, commerciante o piccolo imprenditore in carne e ossa avrebbe firmato un protocollo come quello concordato dai vertici delle loro associazioni.

Ma torniamo alla riduzione delle tasse. Un’operazione di grossa riduzione fiscale è certamente auspicabile ma rischia di scontrarsi con la realtà dei conti pubblici. Se mettiamo assieme i soldi stanziati dal decreto Cura Italia e da quello Rilancio, vediamo che sono stati già spesi 80 miliardi solo per misure di sostegno sociale. E questo porterà il debito/pil a un rapporto che sfiora il 160%. Non le sembra che le cartucce ce le siamo già sparate tutte?

Su questo ha ragioni da vendere l’ex ministro Tria, che per primo ha sollevato questa preoccupazione, ovvero che largheggiando ora il governo si trovi a stecchetto quest’autunno, quando dovrà varare la finanziaria. Ma il punto cruciale a me sembra più a monte, e riguarda come gestire l’aumento del debito pubblico, che ci sarà comunque, sia che si segua la via iper-assistenziale che piace a questo governo, sia che si imbocchi la via di un taglio immediato e consistente del carico fiscale sui produttori. Quell’aumento del debito risveglierà le autorità europee, e soprattutto risveglierà i mercati. Lo spread tenderà a salire, e noi dovremo trovare un modo di convincere i mercati e le istituzioni sovranazionali a comprare e ricomprare il nostro debito. Ebbene, a quel punto avremo solo due vie.

La prima: anni e anni di austerità vera (non la pseudo-austerità di questi anni, che è esistita solo nella propaganda anti-europea), in una spirale di contrazione della base produttiva → contrazione della base imponibile → tagli alla spesa pubblica → aumenti delle aliquote  imposte patrimoniali di scopo.

La seconda: crescere a un ritmo tale (almeno il 3% all’anno per diversi anni) da rassicurare i mercati sulla sostenibilità del nostro debito. Dico questo anche perché, come fondazione Hume, da anni ci occupiamo delle determinanti dello spread, e una cosa gliela posso dire senza esitazione: nell’equazione dello spread il deficit annuale non entra, mentre hanno un ruolo importante (di contenimento) le prospettive di crescita di un paese. Se cresci, questa mera circostanza calmiera lo spread. Ma bisogna convincersi che crescere molto di più di oggi è la nostra unica possibilità, se non vogliamo beccarci dieci anni di austerità. Chi obietta che non ci sono le “risorse” per alleggerire la pressione fiscale sui produttori dovrebbe rispondere a questa domanda: quanto ci costa, in termini di erosione della base imponibile (e quindi del gettito), il fallimento di migliaia e migliaia di imprese che, con questa pressione fiscale, non riescono a restare sul mercato?

Dunque lei è contrario all’austerità?

Io sono sempre stato a favore di quella che Veronica De Romanis chiama l’austerità buona: mettere a posto i conti pubblici riducendo la spesa corrente e abbassando le tasse sui produttori. Poteva funzionare, e lo avessimo fatto a tempo debito – anziché invocare flessibilità ad ogni pie’ sospinto – ora saremmo messi meno male di come siamo. Ma adesso la situazione è completamente cambiata, ed è paradossale.

Noi rischiamo di essere commissariati dall’Europa, o dal Fondo Monetario, o da qualche altro organismo sovra-nazionale, perché fra pochi mesi apparirà a tutti che lo Stato si sta indebitando troppo, il Pil non dà segni di ripresa, e la base imponibile si assottiglia, aggravando il bilancio pubblico. Ci chiederanno di agire sul numeratore, ovvero sul debito, perché “è nella loro natura”, come recita la fiaba dello scorpione e della rana: la tecnoburocrazia che governa il mondo ha una visione ragionieristica dei conti pubblici. A quel punto il paradosso prenderà forma: l’Italia perderà la sua sovranità perché nel momento più difficile il caso ha voluto che il governo fosse in mano ai sovranisti, o meglio alla variante più anti-crescita del sovranismo, quella dell’assistenzialismo pentastellato.

Ma possiamo evitare tutto ciò?

Probabilmente no, a questo punto, troppo grande è il danno che si è già fatto. Ma se uno spiraglio è dato intravedere, è quello di ribaltare tutto: indebitiamoci, ma facciamolo in modo da salvare le attività che possono farcela, e di rendere profittevole crearne di nuove. Affinché la schumpeteriana “distruzione creatrice”, che ci sarà comunque, sia più creatrice di nuove attività e meno distruttrice di vecchie.

Lei parla anche di semplificazioni e sburocratizzazione. Negli ultimi anni i governi che si sono succeduti mi sembra siano andati nel verso opposto: più controlli e documenti per evitare corruzione e infiltrazioni criminali. Il Covid farà cambiare idea a una maggioranza il cui partito più grande - M5s - ha nel Dna una carica ultra-legalitaria?

Qui mi sento di attenuare le responsabilità dei Cinque Stelle. Avere i Cinque Stelle al governo si limita a peggiorare la situazione, perché stimola la iper-produzione di norme dannose per l’economia, ma non è il vero problema. Anche ci fosse Einaudi al governo, non ce la farebbe, in pochi mesi, a smontare il cancro burocratico che sta uccidendo l’Italia. Il vero problema è che chiunque provi a semplificare la burocrazia, tende a farlo creando nuove norme, anziché disboscando l’esistente.

Da questo punto di vista il fatto che Conte annunci un “decreto semplificazioni” semplicemente mi terrorizza. Lo smantellamento del mostro burocratico e la riforma della giustizia civile richiederebbero almeno 4 o 5 anni di lavoro anche al più serio e ben intenzionato dei governi. Nel breve periodo, l’unica strada percorribile a me pare quella di prevedere, ovunque sia possibile e ragionevole, norme transitorie che scavalchino e sospendano tutte le altre, come si è fatto con il ponte di Genova, e come si potrebbe fare in molti altri casi.

Non hanno esitato a toglierci le nostre libertà più preziose, possibile che l’unica cosa intoccabile sia la giungla degli adempimenti e delle procedure che stanno strangolando l’Italia?

venerdì 15 maggio 2020

I rischi del contagio, conoscerli per evitarli - Erin Bromage, immunologo

I rischi del contagio, conoscerli per evitarli
Erin Bromage, immunologo
15 maggio 2020 (Internazionale.it)

Questo articolo è un post del blog di Erin Bromage, professore associato di biologia all’università del Massachusetts di Dartmouth, specializzato in immunologia. Da quando è stato pubblicato, il 6 maggio, è stato visto più di tredici milioni di volte.
In questo momento pare che molte persone stiano tirando un sospiro di sollievo, e non sono sicuro del perché. Una curva epidemica ha una fase ascendente relativamente prevedibile, e dopo aver raggiunto l’apice anche la fase discendente può essere intuibile.
I dati relativi alla Cina e all’Italia mostrano che la curva della mortalità cala lentamente e che le persone continuano a morire per mesi. Supponendo di aver raggiunto il picco dei decessi, intorno ai settantamila, è possibile che nelle prossime sei settimane ci siano altri settantamila morti mentre la curva scende. Questo è quello che può succedere in un contesto di confinamento.
Ora negli Stati Uniti ci sono singoli stati che stanno allentando le misure restrittive, dando al virus più occasioni per diffondersi, e ogni previsione perde validità. Capisco le ragioni dietro la riapertura delle attività economiche ma, come ho già sottolineato, l’economia non potrà riprendersi se prima non risolviamo i problemi legati alla biologia.
Sono poche le zone che hanno registrato un declino stabile nei contagi. Anzi, il 3 maggio erano in aumento nella maggioranza degli stati che, malgrado tutto, hanno avviato la riapertura. Come semplice esempio della tendenza negli Stati Uniti, se si tolgono i dati di New York e si osserva il resto del paese, il numero di casi giornalieri aumenta. Dunque, l’unica ragione per cui la curva del totale di nuovi casi negli Stati Uniti sembra piatta in questo momento è perché l’epidemia di New York era molto grande e ora è stata contenuta.


Questo significa che nella maggior parte del paese la riapertura getterà benzina sul propagarsi del virus. Non posso fare nulla per cambiare le decisioni delle autorità, ma posso provare a spiegarvi come evitare le situazioni più rischiose.

Dove è più facile ammalarsi?

Sappiamo che la maggior parte dei contagi si verifica nelle abitazioni: di solito una persona contrae il covid-19 all’esterno e lo porta in casa, dove i contatti prolungati con i familiari favoriscono la trasmissione.
Ma quali sono i contesti esterni in cui è più facile essere infettati? Sento parlare spesso dei supermercati, delle passeggiate in bicicletta e dei runner sconsiderati che non indossano le mascherine… Ma davvero sono queste le situazioni a rischio? In realtà non è così. Mi spiego.
Per contrarre il covid-19 è necessario essere esposti a una dose infettiva di virus. In base agli studi sugli altri coronavirus sembra che per trasmettere la malattia sia sufficiente una piccola dose. Secondo alcuni esperti sarebbero sufficienti mille particelle infettive di Sars-cov-2. È importante sottolineare che questi dati non sono stati verificati al livello sperimentale, ma possiamo comunque usarli per illustrare le modalità di trasmissione del virus. Il contagio può verificarsi con l’inalazione di mille particelle virali attraverso un singolo respiro (o toccandosi gli occhi), attraverso dieci respiri con cento particelle virali ciascuno o ancora cento respiri con dieci particelle virali. Ognuna di queste situazioni può portare a un’infezione.

Quanto virus finisce nell’ambiente?

Bagni
I bagni abbondano di superfici che sono toccate continuamente, dalle maniglie ai rubinetti. Di conseguenza in questi ambienti il rischio di trasmissione può essere elevato. Ancora non sappiamo se le persone rilascino materiale infettivo nelle feci o solo frammenti di virus, ma di sicuro lo scarico del water vaporizza i famigerati droplet (goccioline) che veicolano il virus. Fino a quando non avremo maggiori informazioni sui rischi, vi consiglio di usare i bagni pubblici con estrema prudenza, facendo attenzione sia alle superfici sia all’aria.

Colpo di tosse
Un singolo colpo di tosse rilascia circa tremila goccioline, che possono viaggiare a ottanta chilometri all’ora. La maggior parte delle goccioline è di grandi dimensioni e precipita rapidamente a causa della gravità, ma alcune possono restare nell’aria e attraversare una stanza in pochi secondi.

Starnuto
Un singolo starnuto rilascia circa trentamila goccioline che possono raggiungere la velocità di 300 chilometri all’ora. Le goccioline degli starnuti sono generalmente piccole e coprono grandi distanze (attraversano facilmente una stanza). Se una persona ha contratto il covid-19, le goccioline di un singolo colpo di tosse o di uno starnuto possono disperdere nell’ambiente fino a duecento milioni di particelle virali.

Respiro
Un singolo respiro rilascia tra le cinquanta e le cinquemila goccioline. Nella maggior parte dei casi i droplet sono lenti e precipitano immediatamente. La respirazione nasale rilascia una quantità di goccioline ancora più bassa. È importante notare che la scarsa forza di esalazione di un respiro impedisce l’espulsione delle particelle virali provenienti dal tratto respiratorio inferiore. Diversamente dai colpi di tosse e dagli starnuti, che rilasciano una grande quantità di materiale virale, i droplet respiratori presentano livelli contenuti di virus. Non abbiamo ancora dati certi relativi al Sars-cov-2, ma possiamo basarci sulle caratteristiche della comune influenza. Diversi studi hanno dimostrato che una persona affetta da influenza può rilasciare fino a 33 particelle infettive al minuto, ma per semplificare i calcoli prenderò come punto di riferimento 20 particelle al minuto.

Ricordate la formula: infezione = quantità di virus x tempo

Se una persona starnutisce o tossisce, quei duecento milioni di particelle virali si diffondono in ogni direzione. Alcune particelle restano nell’aria, altre si depositano sulle superfici mentre la maggioranza precipita al suolo. Quindi se vi trovate a conversare a distanza ravvicinata con un’altra persona che improvvisamente starnutisce o tossisce, è abbastanza facile capire come sia possibile inalare mille particelle virali e infettarsi. Anche se lo starnuto o il colpo di tosse non sono diretti verso di voi, alcuni droplet infetti (i più piccoli) possono restare sospesi in aria per qualche minuto, riempiendo di particelle virali ogni angolo di una stanza di dimensioni ridotte. Basta entrare in quella stanza pochi minuti dopo il colpo di tosse o lo starnuto e fare qualche respiro per inalare una quantità di particelle virali sufficiente ad ammalarsi. Tuttavia, se ci limitiamo alla respirazione – con 20 particelle virali al minuto e anche ammettendo che ogni singola particella finisca nei vostri polmoni, caso improbabile – servono comunque cinquanta minuti per assumere le mille particelle necessarie per il contagio.
Quando parliamo, la quantità di goccioline respiratorie rilasciate nell’atmosfera aumenta di quasi dieci volte, portando il conto delle particelle virali a circa duecento al minuto. Anche in questo caso, presupponenendo di inalare tutte le particelle, per raggiungere la dose minima infettante bisognerebbe parlare faccia a faccia per circa cinque minuti. La formula “quantità x tempo” è alla base del tracciamento dei contatti. Qualsiasi persona con cui un individuo infetto abbia parlato a distanza ravvicinata per più di dieci minuti è un potenziale caso di contagio. Lo stesso vale per chiunque condivida uno spazio con una persona infetta per un arco di tempo prolungato, per esempio un ufficio.
Per questo è estremamente importante restare a casa quando si manifestano sintomi riconducibili alla malattia. I colpi di tosse e gli starnuti producono una dose infettante talmente elevata da contagiare potenzialmente un’intera stanza piena di persone.

Qual è il ruolo delle persone asintomatiche nella diffusione del virus?

Le persone con sintomi non sono le uniche a poter diffondere il Sars-cov-2. Sappiamo che almeno il 44 per cento dei casi di contagio – la maggioranza di quelli avvenuti all’interno di comunità – è provocato da persone che non presentano sintomi, ovvero le persone asintomatiche o presintomatiche. Un individuo positivo può disperdere il virus nell’ambiente per almeno cinque giorni prima della comparsa dei sintomi della malattia.
Le persone infette sono presenti in ogni fascia d’età, e ognuna diffonde una carica virale diversa. L’immagine qui sotto mostra che a prescindere dall’età (asse x) si può presentare una carica virale di dimensioni estremamente variabili (asse y).
La quantità di virus diffusa da una persona infetta cambia durante il corso della malattia e differisce da un individuo all’altro. La carica virale solitamente aumenta progressivamente fino alla comparsa dei primi sintomi. Subito prima di manifestare i sintomi, l’individuo infetto rilascia la dose massima di virus nell’ambiente. È interessante notare che il 99 per cento della carica virale che potrebbe essere rilasciata nell’ambiente proviene da appena il 20 per cento delle persone infette.

Il nocciolo della questione: dove sono i pericoli derivanti dalla riapertura?

Se vi chiedo dei focolai, quali sono i primi che vi vengono in mente? La maggior parte delle persone indicherebbe le navi da crociera, sbagliando. I focolai sulle navi, per quanto gravi, al momento non rientrano tra i cinquanta peggiori casi registrati.
Mettendo da parte la drammatica situazione delle case di riposo, notiamo che negli Stati Uniti i focolai peggiori sono esplosi nei penitenziari, durante le cerimonie religiose e negli ambienti di lavoro come gli impianti per la macellazione della carne e i call-center. Qualsiasi ambiente chiuso con una scarsa circolazione dell’aria e un’elevata densità crea problemi.

Alcuni dei più importanti contesti di superdiffusione

- Macellazione della carne: negli stabilimenti per il confezionamento della carne gli operai lavorano a stretto contatto e devono comunicare a distanza ravvicinata a causa del rumore assordante dei macchinari, in un ambiente climatizzato che favorisce la sopravvivenza del virus. Al momento negli Stati Uniti si contano 115 focolai in 23 stati, con oltre cinquemila casi di contagio e venti decessi.
- Matrimoni, funerali, compleanni: rappresentano il 10 per cento degli iniziali eventi di contagio accertati.
- Incontri di lavoro: i grandi incontri a distanza ravvicinata come la Conferenza Biogen di Boston alla fine di febbraio.
In questi giorni torniamo al lavoro e ricominciamo ad andare al ristorante, quindi è opportuno analizzare i rischi potenziali in questo genere di ambienti.

Ristoranti
Alcuni studi epidemiologici hanno analizzato approfonditamente gli effetti della presenza di un singolo individuo infetto all’interno di un ristorante (vedi sotto). La persona infetta (A1) ha cenato al tavolo con otto amici. L’incontro è durato tra i 60 e i 90 minuti. Durante il pasto l’individuo asintomatico ha rilasciato livelli contenuti di virus nell’aria attraverso il respiro. Il flusso dell’aria (determinato dalle diverse fonti di ventilazione del ristorante) andava da destra verso sinistra. Circa il 50 per cento dei commensali dell’individuo A1 ha sviluppato sintomi di covid-19 nei sette giorni successivi. Il 75 per cento delle persone sedute nel tavolo “sottovento” ha contratto la malattia. Perfino due delle sette persone sedute al tavolo “sopravento” sono state infettate dal virus, mentre nessuna delle persone sedute ai tavoli E ed F ha contratto la malattia, probabilmente perché si trovavano fuori dal flusso d’aria del condizionatore e a destra della ventola posizionata alla sinistra della sala.


Ambienti lavorativi
Un altro ottimo esempio è un focolaio in un call-center. Un singolo dipendente positivo si è presentato al lavoro all’undicesimo piano di un palazzo, dove lavoravano altre 216 persone.
Nel corso di una settimana 94 individui (43,5 per cento, le sedie blu) sono stati contagiati. Novantadue hanno sviluppato i sintomi del covid-19, mentre appena due sono rimasti asintomatici. Da notare che la trasmissione si è verificata soprattutto in un lato dell’ufficio, mentre nell’altro il contagio è stato estremamente ridotto. Non è stato possibile stabilire il numero esatto di persone contagiate attraverso la respirazione e di quelle che hanno contratto la malattia a causa del contatto con le superfici (maniglie, distributori d’acqua fredda, pulsanti dell’ascensore eccetera), ma l’esempio dimostra che la convivenza in uno spazio chiuso per un periodo prolungato aumenta le possibilità d’infezione. Altri tre dipendenti che lavoravano in piani diversi dell’edificio hanno contratto il covid-19, ma gli autori dello studio non hanno trovato un collegamento tra i loro casi e il focolaio all’undicesimo piano. È interessante notare che nonostante i ripetuti contatti tra i dipendenti di piani diversi negli ascensori e all’interno delle sale comuni il focolaio sia stato in gran parte limitato a un unico piano. Questo aspetto evidenzia l’importanza della quantità di virus e del tempo di esposizione nella diffusione del Sars-cov-2.

Coro
Il coro dell’università dello stato di Washington. In un contesto in cui esisteva già la consapevolezza del virus ed erano stati presi provvedimenti per limitare il contagio (per esempio evitando le strette di mano) i componenti del coro hanno cercato di prendere precauzioni ulteriori evitando i contatti e mantenendo le distanze durante le prove. La direzione ha addirittura consigliato a tutti i componenti di restare a casa se avessero sviluppato i sintomi del covid-19. Eppure un singolo individuo asintomatico ha contagiato la maggior parte delle persone presenti alla prova del 10 marzo, quando il coro ha cantato per due ore e mezza all’interno di una sala chiusa delle dimensioni di un campo di pallavolo. Il canto vaporizza i droplet respiratori in modo estremamente efficace, più di quanto non faccia una normale conversazione. Inoltre la respirazione profonda durante il canto facilita il passaggio dei droplet in profondità nei polmoni. La prova ha esposto i partecipanti a una quantità elevata di virus per un periodo di tempo sufficiente a diffondere il contagio. Nell’arco di quattro giorni 45 componenti del coro su 60 hanno sviluppato i sintomi del covid-19. Due di loro hanno perso la vita. Il più giovane tra i contagiati aveva 31 anni, ma l’età media era di 67 anni.

Sport al chiuso
Anche se potrebbe trattarsi di un contesto specificamente canadese, vale la pena citare un evento super-diffusore che si è verificato durante una gara di curling in Canada, dove un torneo con 72 partecipanti ha creato un focolaio. Il curling prevede un contatto stretto tra gli atleti in un ambiente freddo, con una respirazione profonda per un tempo prolungato. Dei 72 partecipanti al torneo, 24 hanno contratto il covid-19.

Feste di compleanno e funerali
Per capire quanto siano semplici le catene del contagio, vi racconterò cosa è accaduto a Chicago. Il nome del protagonista, Bob, è inventato. Bob è stato infettato dal virus senza rendersene conto. In seguito ha condiviso un pasto da asporto con due familiari, servendosi da contenitori in comune. La cena è durata tre ore. Il giorno successivo Bob ha partecipato a un funerale, abbracciando parenti e altre persone per manifestare il suo cordoglio. Nell’arco di quattro giorni entrambi i familiari con cui aveva condiviso la cena si sono ammalati, insieme a un terzo parente che aveva partecipato al funerale. Ma il percorso di Bob non si è fermato. Successivamente l’uomo ha partecipato a una festa di compleanno insieme ad altre nove persone, abbracciandole e condividendo con loro il cibo per tre ore. Sette persone sono state infettate dal virus. Nei giorni successivi anche Bob ha cominciato a mostrare i sintomi della malattia. È stato ricoverato, intubato ed è morto. Ma la sua eredità gli è sopravvissuta: tre persone che aveva contagiato durante la festa di compleanno sono andate in chiesa, dove hanno cantato e si sono passate il cestello delle offerte. Diversi partecipanti alla messa si sono ammalati. In definitiva Bob è stato direttamente responsabile del contagio di 16 persone di età compresa tra cinque e ottantasei anni. Tre di loro hanno perso la vita.
Secondo le stime attuali la diffusione del virus all’interno della famiglia e della comunità attraverso funerali, feste di compleanno e funzioni religiose sarebbe all’origine del focolaio di covid-19 a Chicago.
Fa riflettere, giusto?

Elementi in comune tra i focolai
Analizzare questi diversi focolai ci permette di evidenziarne i punti in comune. Tutti i contagi si sono verificati in spazi chiusi, con un’elevata densità e un’abbondanza di conversazioni, urla e canti. I principali ambienti del contagio sono le case, i luoghi di lavoro, i trasposti pubblici, gli eventi sociali e i ristoranti. Nel complesso in questi contesti è avvenuto il 90 per cento dei contagi. Al contrario, la diffusione attraverso lo shopping sembra responsabile per una piccola percentuale dei contagi tracciati.
È importante notare che nei paesi che svolgono un tracciamento adeguato è stato registrato solo un focolaio collegato a un evento che si è svolto all’esterno (meno dello 0,3 per cento dei contagi accertati).

Torniamo al pensiero originale di questo mio intervento

Gli spazi chiusi e affollati, con un ricambio limitato o con il ricircolo dell’aria, presentano un elevato rischio di trasmissione del virus. Sappiamo che la presenza di sessanta persone in una stanza grande quanto un campo da pallavolo ha provocato numerosi contagi. Lo stesso vale per un ristorante e un call-center. Le linee guida sul distanziamento sociale sono inefficaci negli spazi chiusi in cui si trascorre molto tempo, come dimostra il fatto che nei casi analizzati sono state infettate anche persone posizionate a diversi metri di distanza.
Il concetto fondamentale è quello dell’esposizione prolungata al virus. In tutte le situazioni prese in esame le persone sono state esposte al virus presente nell’aria per un periodo prolungato (ore). Anche se si trovavano a 15 metri di distanza (coro e call-center) e la dose infettante era ridotta, il contatto prolungato con il virus è stato sufficiente a provocare il contagio e in alcuni casi la morte.
Le regole del distanziamento sociale servono a proteggere l’individuo in caso di breve esposizione o di interazioni all’aperto. In queste circostanze, a due metri di distanza e con uno spazio aperto capace di ridurre la carica virale, il covid-19 non ha il tempo sufficiente per diffondersi. Il sole, il caldo e l’umidità sono tutti fattori che ostacolano la sopravvivenza del virus e minimizzano il rischio di trasmissione all’aperto.
Quando valutiamo il rischio di contagio (respiratorio) nei supermercati e nei centri commerciali dobbiamo considerare il volume dello spazio (elevato), il numero di presenti (ridotto) e la quantità di tempo che le persone trascorrono in quello spazio (la giornata intera per i dipendenti, circa un’ora per i clienti). Gli elementi connaturati all’atto di fare la spesa – la scarsa densità, l’elevato volume dello spazio e il tempo limitato che si trascorre all’interno del negozio – fanno in modo che la probabilità di ricevere una dose infettante sia ridotta. Per i dipendenti, invece, aumenta la probabilità di ricevere la dose infettante e di conseguenza il lavoro diventa più rischioso.
Ora che riprendiamo l’attività lavorativa e cominciamo a uscire più spesso, magari per tornare in ufficio, faremmo meglio a valutare attentamente il nostro ambiente di lavoro: quante persone ci sono? Qual è il ricambio dell’aria? Per quanto tempo resteremo in quell’ambiente? Se lavorate in un grande ufficio insieme a molte persone fareste meglio ad analizzare attentamente i rischi (volume, persone, flusso d’aria). Se il vostro lavoro vi impone di parlare (o peggio, urlare) a distanza ravvicinata dall’interlocutore dovete assolutamente riflettere su quali potrebbero essere le conseguenze. Se invece lavorate in uno spazio ventilato con pochi dipendenti il rischio è piuttosto basso.

Se vi trovate all’aria aperta e incrociate un altro passante, ricordate che per il contagio sono indispensabili “quantità e tempo”. Per rischiare di contrarre la malattia dovreste entrare in contatto con il respiro dell’altra persona per almeno cinque minuti. Probabilmente i runner rilasciano una quantità più elevata di virus a causa della respirazione profonda, ma nel loro caso la velocità del passo comporta un minore tempo di esposizione. Mantenere le distanze fisiche è importante, ma resta il fatto che in queste situazioni il rischio di contagio è molto basso. Ecco un ottimo articolo di Vox che analizza approfonditamente i rischi legati alla corsa e agli spostamenti in bicicletta.
In questa analisi mi sono concentrato sul contagio respiratorio, ma non dimenticate le superfici. I droplet devono pur depositarsi da qualche parte. Lavate spesso le mani e smettete di toccarvi il viso.
Oggi cominciamo ad avere la possibilità di muoverci più liberamente, entrando in contatto con più persone in un numero maggiore di spazi. Questo significa che i rischi per noi e per le nostre famiglie sono concreti. Anche se siete paladini del ritorno alla vita normale, fate la vostra parte e indossate una mascherina per ridurre la quantità di quello che rilasciate nell’ambiente. In questo modo aiuterete tutti, a partire da voi stessi.


Questo articolo è ricavato da un post uscito sul blog del professor Erin Bromage.
https://quillette.com/2020/04/23/covid-19-superspreader-events-in-28-countries-critical-patterns-and-lessons/

È stato ispirato da 
un articolo di Jonathan Kay in Quillete:
Covid-19 superspreader events in 28 countries: critical patterns and lessons, 





sabato 9 maggio 2020

Luca Ricolfi: "Ci avviamo verso una società parassita di massa"

Articolo trovato su: www.huffingtonpost.it

Intervista al sociologo e professore all'Università di Torino sull'Italia post-

Covid. "I nuovi 'parassiti' vivranno dipendenti dalla mano pubblica". "Questo è il primo governo risolutamente iper-statalista della storia della Repubblica"


“La nostra società, se non si cambia rotta, molto molto alla svelta (ma forse è già tardi), è destinata a trasformarsi in una ‘società parassita di massa’, che non è il contrario della società signorile di massa, ma ne è uno sviluppo possibile, una sorta di mutazione ‘involutoria’, come forse la chiamerebbe un matematico”. Luca Ricolfi, sociologo che insegna Analisi dei Dati all’Università di Torino, nonché responsabile scientifico della Fondazione Hume, mostra tutti i rischi dell’epoca post-Covid per un paese che da anni si è auto-condannato al declino, come ben spiegato nel suo ultimo libro “La società signorile di massa” (La Nave di Teseo).


Professor Ricolfi, vado dritto al punto. Secondo lei, questo governo ha un’idea dell’Italia? Ha una visione del futuro di questo paese, cosa ancor più necessaria in una fase di gestione dell’emergenza sanitaria e soprattutto economica post- Covid? 
Mi ha molto colpito l’osservazione del vostro De Angelis, secondo cui non si può governare l’Italia senza un’idea di futuro, idea che a questo governo parrebbe mancare. Sottoscrivo al 100% la prima affermazione, ma non la seconda: a mio parere questo governo un’idea del futuro ce l’ha eccome, purtroppo. Questo governo è il primo governo esplicitamente e risolutamente iper-statalista della storia della Repubblica. In esso, infatti, le peggiori pulsioni del mondo comunista ed ex comunista, rappresentato da Pd e Leu, confluiscono e si saldano con l’ideologia della decrescita felice propria dei Cinque Stelle.
E il più straordinario paradosso politico è che un simile mostro socio-economico, che peserà chissà per quanti anni sul futuro dell’Italia, sia stato accuratamente apparecchiato dall’unica componente riformista e modernizzatrice della sinistra, quella di Renzi. 
Proprio da Italia Viva, almeno a parole, sono piovute le critiche per le ricette economiche messe in campo dal governo: secondo Renzi vanno nella direzione di un più puro assistenzialismo, dal reddito d’emergenza ai bonus, passando per la cassa integrazione ordinaria e in deroga. Che effetto avrà nei prossimi anni sulla struttura della nostra società che già in epoca pre-Covid aveva e ha il limite di essere basata sulla rendita più che sul lavoro, come ha descritto nel suo ultimo libro? 
La nostra società, se non si cambia rotta molto molto alla svelta (ma forse è già tardi), è destinata a trasformarsi in una “società parassita di massa”, che non è il contrario della società signorile di massa, ma ne è uno sviluppo possibile, una sorta di mutazione “involutoria”, come forse la chiamerebbe un matematico.
Mi spiego: nella società signorile il parassitismo di chi non lavora convive con un notevole benessere, che accomuna la minoranza dei produttori e la maggioranza dei non produttori. Nella società parassita di massa la maggioranza dei non lavoratori diventa schiacciante, la produzione (e l’export) sono affidati a un manipolo di imprese sopravvissute al lockdown e alle follie di stato, e il benessere diffuso scompare di colpo, come inghiottito dalla recessione e dai debiti. I nuovi parassiti non vivranno in una condizione signorile, ma in una condizione di dipendenza dalla mano pubblica, con un tenore di vita modesto, e un’attitudine a pretendere tutto dalla mano pubblica, con conseguente dilatazione della “mente servile”, per riprendere l’efficace definizione di Kenneth Minogue.
Però l’ex premier Romano Prodi domenica scorsa ha sostenuto la diversa tesi secondo cui da questa crisi si può uscire con una presenza più forte dello Stato nell’economia. 
Prodi è la perfetta manifestazione della forma mentis della nostra classe politica: qualsiasi problema si presenti, e più è grande il problema che si presenta, più forte è l’istinto a invocare “più politica”, “più intervento”, “più stato”. E’ un tic mentale, come lo è quello degli europeisti doc, che qualsiasi cosa accada chiedono “più Europa”, e come lo è quello dei liberisti duri e puri, che qualsiasi cosa accada chiedono “più mercato”.
E invece abbiamo bisogno di fantasia, di apertura mentale, non di rifugiarci ognuno nelle proprie credenze di sempre. 
Dalle imprese tuttavia s’è visto uno scatto d’orgoglio. Il neo-presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha attaccato duramente il governo su questi primi accenni di politica assistenzialista, per non parlare della reazione dura alle ipotesi di entrata nel capitale nelle aziende che rischiano di fallire nei prossimi mesi. Sorpreso? 
Sì, sono rimasto (felicemente) sorpreso. Nonostante io nutrissi parecchie speranze in Bonomi, che mi è parso subito più attrezzato e più coraggioso dei suoi predecessori, mi aspettavo che Confindustria non dismettesse la prudenza (eufemismo) che, almeno dopo i tempi di Montezemolo e del compianto Andrea Pininfarina, ha sempre caratterizzato i suoi rapporti con il potere politico. Da almeno un decennio non ricordavo una presa di posizione così netta contro il governo.
Perché, secondo lei, Bonomi ha assunto una posizione così critica?
Me lo sono chiesto anch’io, mi sono chiesto, in particolare, se sia in corso una manovra per sostituire un premier la cui inadeguatezza, dopo gli ultimi errori, è divenuta difficile da nascondere dietro i fumi delle parole e la mortificante soggezione di una parte dei media.
Poi però mi sono dato un’altra risposta, molto più semplice: “è la sopravvivenza, bellezza!”. Persino un coniglio, se sta per essere inghiottito da un pitone, combatte la sua estrema battaglia per non morire. Figuriamoci una potente organizzazione come Confindustria.
La mia impressione è che il mondo dei produttori, specie nelle regioni del centro-nord, abbia perfettamente capito quel che sta succedendo, e viva una sorta di presentimento di morte. Poiché molte imprese sono già morte, altre agonizzano, altre sanno che non potranno durare, le imprese superstiti cercano disperatamente di non scomparire. E avendo capito che la sopravvivenza delle imprese non è in cima alla lista delle priorità di questo governo, tentano l’ultima battaglia per salvare sé stesse dalla catastrofe che si annuncia.
Insomma, voglio dire che il governo Conte è riuscito nel miracolo di restituire una sorta di “coscienza di classe” alla parte produttiva del paese. E meno male che ciò sta accadendo, perché in questo momento (preciso: in questo momento, non sempre e comunque) dare la priorità alle imprese è l’unico modo di difendere l’interesse collettivo e nazionale. Sul piano economico-sociale (lascio perdere quello sanitario, per non infierire) la più grande bugia di questo governo è stata di lanciare il messaggio: nessuno perderà il lavoro, nessuno sarà lasciato indietro.
E invece no: se il Pil perderà il 10 o il 20% in un anno, come è verosimile, spariranno milioni di posti di lavoro, e vivere di sussidi sarà l’unica possibilità per milioni di famiglie.
 Cerchiamo appunto di guardare ai prossimi mesi. Il Covid alla fine ci potrà dare una vera spinta per evitare il declino - lei lo definisce “argentinizzazione lenta” - verso cui da anni ci siamo incamminati? Pensa che davvero si creerà un clima da ricostruzione post-bellica o è solo retorica e propaganda politica? 
Molto dipenderà da tre fattori. Il primo è che la base produttiva non subisca una distruzione catastrofica (caduta del Pil superiore al 10-15%). Il secondo è che le imprese vengano messe, per la prima volta nella nostra storia, in condizione di lavorare senza ostacoli burocratici e vessazioni fiscali. Il terzo è il fattore-Churchill: ovvero, avere al comando una classe dirigente seria, e possibilmente non frutto di manovre di palazzo. 
Per ripartire e ricostruire c’è però bisogno di una generazione che se ne faccia carico, un po’ come quella che ha fatto tanti sacrifici nel Dopoguerra e che però ha portato l’Italia al miracolo economico degli anni ’60. Dovrebbe, almeno teoricamente, essere quella degli attuali giovani, fra i 20 e i 40 anni. Ma si tratta di quella stessa generazione che si è abbandonata all’opulenza negli ultimi anni, preferendo consumare ricchezza invece che creare reddito. Mi sembra un bel dilemma, non crede?
Sì, la riconversione dei cosiddetti Neet (che alcuni chiamano bamboccioni, o generazione choosy) è un’impresa difficile, specie se di lavoro ce ne sarà ancora meno che oggi.
Proprio per questo tendo a pensare che, se ricostruzione ci sarà, sarà grazie all’apporto di tutti, compresi anziani e pensionati, non certo soltanto o principalmente per opera degli attuali 20-40enni. Ma soprattutto penso che, a differenza che in passato, si dovrà puntare sull’auto-imprenditorialità, più che sull’attesa messianica del posto di lavoro. 
E se poi uno dei motori della ricostruzione fosse formato da quegli immigrati che lavorano in condizioni para-schiavistiche e che sono funzionali alla società signorile di massa come braccianti, colf, badanti e via dicendo? 
Di alcuni segmenti di quella che nel mio libro definisco la “infrastruttura para-schiavistica” della società italiana sarà difficile fare a meno. Ma mi piacerebbe che il dopo-Covid fosse anche l’occasione per attenuare il loro giogo: i fiumi di miliardi che oggi vanno a sussidiare chi non fa nulla, o lavora in nero senza pagare le tasse, troverebbero una destinazione più degna di un paese civile se servissero a trasformare i nostri attuali para-schiavi in veri lavoratori, restituendo loro il rispetto che la civiltà del lavoro ha sempre riservato al mondo dei produttori, compresi i più umili.

domenica 3 maggio 2020

Alessandro Vespignani: “I virologi italiani non hanno capito nulla, per sconfiggere il virus servono le 3T”

Vespignani a TPI: “I virologi italiani non hanno capito nulla, per sconfiggere il virus servono le 3T”
Intervista all'epidemiologo italiano che opera negli Usa: “Per la Fase 2 bisogna ‘testare’, ‘tracciare’, e ‘trattare’. Da qui non si scappa. Noi epidemiologi siamo come quelli che fanno le previsioni del tempo, ma non abbiamo la foto di un un vortice da mostrare al mondo. Per fortuna, al contrario dei metereologi, dopo aver individuato l’uragano, possiamo attenuarne l’impatto”
Di Luca Telese

Professor Vespignani, lei è un epidemiologo, ma non un virologo.I virologi – come le spiegherò – possono essere dei luminari, ma talvolta sono le persone meno indicate per capire come si sviluppa una epidemia.

Addirittura. E lei?Io non potrei dare nessun contributo a trovare un vaccino, ma sono in grado di dire come si muove il virus in una popolazione.

Lei è pro o contro il passaggio alla Fase 2 in Italia?Non ho nulla in contrario, in linea di principio. Anzi, penso che sia necessario ritornare al lavoro. Ma per farlo servono le condizioni di base per non ricadere nell’epidemia.

Cosa serve, che cosa manca?Prima di tutto un salto di mentalità. E poi le tre T. Se vuole le spiego perché.


Alessandro Vespignani, 55 anni. Figlio di Renzo Vespignani, uno dei più famosi pittori italiani del dopoguerra. Romano, fisico di formazione, una carriera internazionale a cavallo fra Europa e America, costruita – negli ultimi venti anni – tutta sulla caccia ai virus. Vespignani è atipico, nella sua formazione, e molto determinato nella sua analisi: “Da oggi 4,5 milioni di persone in più saranno sulle strade, bisogna evitare una seconda ondata: raggiungere questo obiettivo è possibile”.

Buonasera Vespignani, come si sente ad essere considerato “l’enfant prodige dell’epidemiologia” tra i due mondi, fra America e Italia?
“Prodige” non saprei. “Enfant” mi pare troppo generoso, visto che ormai ho 55 anni.

Come è diventato epidemiologo?Pensi: io di formazione primaria sono un fisico, che poi si è interessato all’informatica, che poi da questa base è passato a studiare le reti sociali.

Non sembra un percorso convenzionale, a dire il vero.
(Ride). Ah, certo, assolutamente no: il fatto è che alla fine degli anni Novanta ho iniziato ad occuparmi di virus informatici. E da lì sono passato ai virus biologici.

Ancora più singolare.Capisco. Ma in realtà lo è molto meno di quanto non possa sembrare: il comportamento dei virus informatici, dal punto di vista schematico, e gli scambi infettivi tra le reti, allora seguivano dinamiche sovrapponibili a quelle biologiche.

Era il 2000, l’anno della Sars.Esatto. La Sars è stato il battesimo di una intera generazione, e – nel piccolo – il mio.

Cosa accadde?Mi fecero una proposta, quasi estemporanea, e io accettai senza sapere che sarebbe diventato il mestiere di una vita.

Chi fu?Un collega francese, Valleron. Era rimasto stupito da questa corrispondenza tra modelli e mi disse: “Ma perché non applichi questi tuoi schemi informatici alla epidemiologia?”.

E quale fu il primo passo?Incrociare l’analisi dei dati e i modelli matematici con la tracciabilità.

Mi faccia un esempio concreto.L’emergenza era contenere una epidemia globale. Serviva capire – per esempio – chi c’era su un determinato volo, e sui voli in connessione, capire le frequenze, i flussi totali riaggregati, gli stop over e la digitalizzazione del traffico aereo.

Ed era così difficile?Oh sì! Dal punto di vista dei big data, è come se parlassimo di preistoria. Parlo, cioè, del 1998, del 1999, del 2000. Se fa mente locale, scoprirà che tutti noi volavamo ancora con i biglietti cartacei!

Infatti mi sembra che accada da sempre.In realtà la digitalizzazione integrale è iniziata dopo l’11 settembre, quando – dopo i virus – abbiamo iniziato ad inseguire i terroristi. Un altro virus, ma altrettanto pericoloso.

Lei si considera un “cervello in fuga”?(Ride). Non è una espressione in cui mi riconosco, perché ci consegna una idea di necessità. Io ho scelto questo percorso perché era una opportunità, non una condanna.

Però la stessa opportunità in Italia c’era?Ah, in questo senso direi proprio di no, soprattutto con il senno del poi. Facevo ricerca con l’Università, e il mio relatore di tesi mi disse: “Scusa Vespignani: tu vuoi fare il borsista tutta la vita?”. Era una domanda retorica. Non volevo, e ho lasciato l’Italia nel 1994.

Per andare a Yale.Ho avuto la fortuna di lavorare, per due anni, con un mostro sacro come Benoit Mandelbrot, scienziato francese di origine polacca emigrato in America, famoso per i suoi studi sulla geometria frattale. Classe 1925: un gigante.


E poi?È arrivata una ottima offerta e sono andato in Olanda.

Più soldi?
Sì, guadagnavo di più, ma non ho mai fatto una scelta di questo tipo, non ho mai scelto per uno stipendio: all’epoca mi interessavano le opportunità e la formazione.

E quella successiva?A Trieste: ho lavorato per l’Unesco e per l’Agenzia atomica. Ho allargato enormemente le mie conoscenze e i miei campo di competenza.
Poi la Francia.
Mi hanno chiamato al CNRS, Istituzione prestigiosa, dove sono diventato, visto che questi dettagli le interessano, “ricercatore di prima classe”.

In Francia conosce anche la sua futura moglie.Si chiama Martina, e insegnava italiano in Francia. Stavamo bene, pensavo di aver visto e fatto già tutto.

E invece?
Un giorno mi chiama un mio ex compagno di università dall’Indiana University.

E cosa le dice?
“Tu saresti interessato a venire qui? Noi vorremmo aprire un centro di sistemi complessi”.

Quale delle sue tante competenze gli serviva?
(Sorriso). Questo è il bello. Tutte.

Tutte?
Proprio perché in quegli anni ci si rese conto che nell’era digitale per l’epidemiologia servivano competenze particolari, multiple e interdisciplinari.

In Indiana ci resta sette anni.
Ricordo che partimmo con Martina che chiedeva ironica: “Dove sta Indianapolis?”. Abbiamo lavorato e vissuto lì fino al 2011.

E poi?
Poi arriva la classica offerta che non si può rifiutare, dalla Northeastern University.

E cos’era che non si può rifiutare visto che lei non era interessato ad uno stipendio?
Le risorse. Uno standard che è il sogno di qualsiasi scienziato, e potrei tradurre così: “Porti chi vuoi, fai quello che vuoi, puoi prendere o comprare quello che ti serve”.

E Martina?
Alla fine lei è diventata più americana di me. Abbiamo due figli “americani”, nati qui: Lorenzo,12 anni, e Ottavia, 9. Ormai la nostra casa è questa.

Un altro pianeta rispetto alla ricerca in Italia?
Non sono i soldi su un determinato progetto a fare la differenza, è il sistema: è tutta la rete di fondi di ricerca che hai intorno. Ormai siamo a Boston da otto anni, con me ho una dozzina di ricercatori, occupiamo due piani.

Quindi oggi come si definisce, dal punto di vista professionale?
Io? Bella domanda: direi che sono una persona che si occupa di epidemiologia computazionale.

Molti virologi dicono di lei, con un po’ di sospetto: un fisico che si occupa di epidemiologia è curioso.
Ah ah ah. Se volessi prendere cappello potrei rispondere così: non tutti sanno che un normale virologo – salvo eccezioni – sa poco di epidemiologia.

Scherza?
Mannó, non c’è nulla di polemico. Si tratta della loro formazione: magari fanno un paio di esami, uno studio sull’epidemiologia. Ma il loro lavoro, giustamente, è un altro.

Mi faccia capire con un esempio per spiegare la differenza tra virologi ed epidemiologi.
Mi è venuto in mente questo: è come chiedere a un meccanico bravissimo con i pistoni e con le centraline delle auto di fare un previsione sul traffico in autostrada al casello di Abbiategrasso.

Lei invece è quell’uomo.
Esatto. Io non sono bravo a smontare il motore di un virus, a trovare un vaccino, ma lavoro con i dati per capire quanti contagiati ci saranno domani, e tra un mese, a Milano, a Bergamo, o a New York.

Servono molte equazioni, molta matematica, molte capacità di analisi.
Vede, dietro questo benedetto R0, c’è una tale complessità previsionale che il nostro mestiere, lo dico senza ironia, è molto più simile a quello dei metereologi. Come per loro, più lontana è la previsione, maggiore e il grado di approssimazione.

Come un metereologo? Scherza?
Sì, ma con due differenze importanti.

Quali?
La prima è che noi pronostichiamo quasi sempre catastrofi, non ci chiamano se c’è bel tempo.

E la seconda?
Un metereologo ha sempre una bella immagine di un vortice da fare vedere e può dire: “Guardate. Questo è il ciclone, e vi sta arrivando proprio sulle teste”. Noi, invece, non abbiamo nulla di così immaginifico da far vedere.

I morti.
Che però ancora non ci sono, io devo andare da un politico e gli devo dire: guarda, oggi ci sono solo sei contagiati. Fra un mese potranno essere un milione.

Perché all’inizio molti virologi dicevano “questo virus fa 100 morti mentre l’influenza ne fa 20mila”? Era giusto o sbagliato?
Era sbagliato. Ecco un altro esempio della differenza tra un meccanico di virus e un epidemiologo. Quella previsione non faceva i conti con la velocità di propagazione, la mancanza di farmaci, la popolazione vulnerabile rispetto ad una normale influenza.
Che in Italia può colpire massimo dieci milioni di persone perché gli altri sono immuni…
Mentre il Coronavirus è la prima volta per tutti.

Seconda grande domanda. I dati della Cina alla luce di quello che lei ha riscontrato sono falsi?
Secondo me erano assolutamente veri.

Davvero?
Vede, bisogna capirsi: i dati di qualsiasi epidemia all’inizio sono sempre – mi passi il romanismo – “un casino”.

La Cina, però ha aspettato sei giorni prima di avvisare il mondo.
Ma è ovvio! Prenda l’Italia: anche noi, in una sola settimana, abbiamo cambiato il nostro punto di vista: all’inizio ci sono stati errori, riponderazioni, buchi. Ecco perché io da mesi dico che anche i nostri dati “non sono veri”.

Qui è lo statistico che parla.
È matematica. Gli infetti in Italia sono dieci volte di più di quelli ufficialmente infettati. Io direi: riconosciuti come infetti.

Perché il campione che abbiamo è falsato?
Esatto. Qualunque modello sensato e professionale ci dice che siamo già nell’ordine dei milioni, e non delle centinaia di migliaia.

È sicuro che ci sia uno scarto così ampio?
Esatto. È come fare un sondaggio politico e farlo sono nella sezione di un partito. È ovvio che se sei in una sede della Lega ti sembra che Salvini abbia il 90% e se sei a Reggio Emilia il più popolare è Bersani. Vuol dire che la nostra impressione ingannevole è data dal fatto che il grosso dei tamponi non sono fatti seguendo un modello statistico demoscopico, ma prendendo tutti quelli che gravitavano già sugli ospedali.

Mi faccia un altro esempio.
Andiamo lontano dall’Italia. Il lavoro che sto facendo sembrava diventato impossibile: ci sono volute due settimane solo per capire come contavano i morti a New York, capisce?

Per l’annosa questione se si muore “con” Coronavirus o “per” Coronavirus?
Sì. Ma anche per una questione di flusso: un giorno ti arrivano 3.500 morti tutti insieme, e forse il dato riassume quello che è accaduto un mese prima.

In Europa sono stati più bravi?
Questo mi fa sorridere. Se lei si ricorda in Francia, in Germania, in Inghilterra dicevano: “Il caso Italiano”. Erano solo quindici giorni indietro a noi. Era insensato. Io questo l’ho detto a marzo dal TG1 al Corriere della sera.

Quindi non siamo stati meno bravi, secondo lei.

Questo virus è una bestia maledetta che ha preso tutti, senza fare sconti a nessuno. E molti di coloro che sorridevano sulla nostra “impreparazione” e sorridevano, si sono fatti trovare più impreparati di noi malgrado il preavviso!

Altra vexata quaestio: era giusto chiudere i voli diretti per la Cina o non è servito a nulla?
Dal mio punto di vista è stato giustissimo farlo. Chiudere un volo diretto non ferma il contagio, ma lo rallenta di sicuro. Si ricorda? Negli anni Duemila iniziai proprio con questo tipo di calcoli probabilistici sui voli e sui contatti.

Perché i tedeschi hanno l’indice di mortalità enormemente più basso del nostro?
Per due motivi. I tedeschi confermano molti più casi di noi, allargano il denominatore dei tamponati, quindi riducono il rapporto di mortalità.

E poi?
Il dato sui morti con patologie concorrenti: alcuni dei loro casi vengono computati con altre cause di decesso.

Qual è il fattore di rischio più alto del Coronavirus?
Il tema del contagio indotto dagli asintomatici e il periodo di incubazione.

Che tradotto sul suo modello cosa produce?
Per settimane l’epidemia galoppa nascosta, sottotraccia, invisibile. Un flagello.

È attendibile lo studio che in Italia ha ipotizzato il rischio di 150mila terapie intensive se si sbaglia nella Fase 2?
Molto verosimile, proprio per tutto quello che abbiamo detto su contagi occulti e capacità di trasmissione uomo-uomo.

Anche in America sarà così?
La faccio sorridere, ma di amarezza. Noi stiamo lavorando con la Casa Bianca per quel tipo di proiezioni. Qui l’adozione di quel tipo di modello ci fa salire a una stima di due milioni di vittime.

Il governo americano usa uno dei vostri modelli?
Diciamo che è uno dei quattro usati dalla task force. Ma, per darle un’idea, gli altri non si differenziano dal nostro per essere più ottimistici.

Il suo come si chiama?
“Global epidemic and mobility model”.

Torniamo all’Italia.
Io quel lavoro l’ho studiato: sono dati molto raffinati, uno studio di epidemiologia fatto davvero molto bene. Di una professionalità e di una cura infinita.

Quindi dobbiamo suicidarci?
No! Dobbiamo fare le cose per bene, applicando la regola delle tre T, come le spiegherò tra poco, e quel numero potenziale non si realizza. Come è accaduto tra nord e sud Italia.
Perché tutti gli epidemiologi pronosticavano una catastrofe dopo l’esodo di massa da Milano e invece non c’è stata?
In primo luogo perché c’è stata responsabilità collettiva e molti si sono isolati. In secondo luogo perché era già accaduto.

Dove?
In Cina. Lo sa che nella “Fuga da Whuan” si sono disperse per la Cina mezzo milione di persone?

E cosa sapevate voi?
Che non tutti erano infetti. Non tutti erano asintomatici. E che, aggiungendo quei casi agli altri che sicuramente già c’erano, non ci sarebbe stato il collasso. Noi questa dinamica la vedevamo.

Quando dice così mi fa paura. La “vedevate”?
Dalle equazioni: torni per un attimo alla similitudine delle previsioni del tempo…

Ci sono.
Noi sapevamo che il sud era in una situazione completamente diversa dal nord. Al nord il virus è arrivato a fine dicembre. Al nord circolava sottotraccia. Al nord il virus si è innervato in una rete di relazioni, viaggi, e commerci enormemente sviluppata. Parlo di voli, di connessioni.

Di nuovo il suo cavallo di battaglia del Duemila.

Ma lei davvero vuole paragonare le interazioni del Molise con la Cina a quelle con la Lombardia industrializzata? Sono due paesi diversi. Due mondi.
Proviamo a raccontare come si muove il virus in quel nord ad alta densità industriale ed antropica.
L’equazione che aiuta a capire è semplice: se tu ogni tre o quattro giorni hai il tempo di raddoppio dei contagi, in un mese ti ritrovi con un due elevato alla settima. Facendo due conti, un’epidemia che parte un mese prima è 128 volte più grande di quella partita il mese dopo. Due settimane sono un fattore 10.

Ma è stato giusto chiudere tutta l’Italia come ha fatto il governo due mesi fa?
Io non ho il minimo dubbio, e nessuno dati alla mano può averlo. Il blocco funziona. Il dramma sarebbe accaduto se all’epoca si fossero fatte chiusure differenziali.
Perché le regioni del Sud sarebbero state contagiate da quelle del nord.
Malgrado i volumi di traffico enormemente diversi tra Bergamo e il Molise, se non chiudevi il virus sarebbe arrivato anche in Molise!
E gli ospedali?
Lodi e Codogno: lì sono stati sfortunati. Quegli ospedali sono diventati dei focolai, non era inevitabile. Ma il grande  tema è: c’erano le protezioni e la preparazione? Perché se non le hai non puoi non sbagliare.

La scala di Bergamo proiettata su New York è peggiore o migliore?
Io credo che siamo lì. Quando Improvvisamente ci siamo trovati quei 3.500 morti hanno fatto sballare tutti i modelli.

E da voi?
L’altro giorno ho dovuto gestire un casino enorme. Quando qui c’erano 28 casi. Noi abbiamo dovuto dire alle autorità che saremmo arrivati presto a 25 mila. Però non sempre la precisione si certifica. Perché rispetto a chi fa le previsioni del tempo noi abbiamo una fortuna: noi possiamo cambiare il racconto dell’uragano. Possiamo abbattere la forza dell’onda che vediamo sollevarsi.

Quanto ha contato nel caso Italiano la condizione della sanità?
Molto. Non abbiamo avuto nessuna linea di difesa prima degli ospedali.

E questo ha aumentato anche i numeri dei contagi.
Per forza. Non solo non vedi il virus correre quando si muove in modo asintomatico. Ma non riesci ad intervenire nemmeno quando lo vedi. Se ti metti in moto quando le terapie intensive sono intasate, per molti di quelli che arrivano è già troppo tardi.

E in America hanno gli stessi problemi con la Fase 2?
Uhhhh! Da oggi 15 stati iniziano a riaprire, e non dovrebbero.

Lei è favorevole o contrario alla Fase 2?
Detta così la domanda è mal posta.

E come andrebbe posta?
A me pare che non ci sia ancora nessun paese in cui c’è già una infrastruttura di contrasto del virus che ti impedisca di ricadere.

E qui arriviamo al suo cavallo di battaglia. Le famose “tre T di Vespignani”.
Non mi prenda in giro. Ne parlo da mesi perché è il mio chiodo: le tre T sono l’uovo di Colombo, “testing, tracing and treating”.

“Testare”, “tracciare” e “trattare”.
Esatto. Noi ormai siamo in una fase in cui non conta solo dove ti trovi – il livello dei contagi ad esempio – ma quello che fai.

Cominciamo con il testare.
Tamponi e test, purché omologati. Serve un esercito. Serve una determinazione ossessiva e spietata. Io in Italia oggi questo esercito non lo vedo.

In Veneto, forse?
Il Veneto sta diventando un ottimo modello. Proprio perché sono partiti dalla prima T.

Passiamo alla seconda.
Tracciare. Che poi significa poter “Isolare”. Appena sei positivo c’è qualcuno che ti chiama e ti chiede: “Quante persone hai visto? E chi sono?”. E poi si chiamano, si isolano e si seguono anche quelli.

Ma c’è qualcuno che ci si sta avvicinando?
In Cina, in Corea a Hong Kong. In Germania. Bisogna risalire tracciando. E spiegare: “Anche se stai bene come un pupo, se hai avuto contatti con l’infetto te ne stai a casa due settimane, meno i giorni che sono passati dal tuo contatto”.

Non sempre quindici, dunque? E perché?
Siccome non va dimenticato che tutto questo ha un costo sociale enorme, se il contatto è avvenuto dieci giorni fa e sei negativo devi essere isolato solo cinque giorni.

E poi?
Poi li devo monitorare, misurare. E ti devo assistere. Al momento giusto, se sei negativo puoi uscire.

Molti si chiedono se si possa fare in paesi come il nostro.
Eh no! Qui mi incazzo.

Professor Vespignani!
Ma queste cose sono state fatte in Congo, quando abbiamo combattuto contro Ebola!

Lei ha monitorato anche quella epidemia?
Noi abbiamo costruito i modelli per il Congo e, le autorità congolesi li hanno implementati anche in zone di guerra! Si può fare in Congo e non si può fare a Milano?

Quali altri modelli avete costruito?
Abbiamo lavorato su Zika, in Sud America, e nelle zone del sud degli Stati Uniti. Poi con la Pandemia influenzale del 2009. Calibrato i modelli sulla SARS.

Sono esperienze parallele a questa pandemia?
Sì. È la terza volta che un Coronavirus fa un salto di specie. La Sars, come è noto, faceva più vittime, ma non aveva una trasmissione asintomatica.

Cos’altro emerge dai vostri modelli?
I bambini sembrano meno suscettibili. Meno sintomatici. Ma è da confermare.
Altra cosa importante per la Fase 2, la terza T.
Trattare. E qui io vorrei partire dall’isolamento, che non può essere familiare.

Non può?
No. Io non posso credere che in Italia ancora oggi si dica ad un infetto: “Adesso chiuditi a casa tua”.

Perché?
Ma prendete un albergo! Aprite una caserma. Fate quello che volete, ma non chiudete gli infetti nelle loro case, ad infettare i loro familiari.

E le sembra un problema di mentalità o economico?
Di mentalità. Perdiamo un miliardo di euro al giorno. Ma prendiamo tutte le stanze che servono, e facciamo trascorrere il miglior periodo di quarantena immaginabile.

Perché questo messaggio non passa?
Io non me ne capacito. Eppure nei venti punti del ministero ci stanno queste cose scritte. Il problema è che molti governatori non le applicano.

Quindi lei cosa direbbe alla Santelli?
Che se vuole aprire deve passare per le tre T e costruire questa infrastruttura. Ma senza aver costruito un sistema, invece, “aprire” diventa un esercizio di stile.

E in America a quante T siete?
Dipende. Serve un esercito di tracciatori. Negli Stati Uniti si pensa di assumerne almeno 100mila. Solo la California ne deve mettere in campo 10mila. E stiamo già facendo i bandi.

E la polemica sulla App?
Io non l’ho capita. Ma davvero pensiamo di sconfiggere Covid con una app?

Proprio lei è scettico?
Sì, e non perché da informatico non abbia fiducia nelle tecnologie, si figuri. Ma perché le persone vanno se-gui-te. Lei se lo immagina uno che si alza la mattina e tutto tranquillo si autoisola perché lo schermo del telefonino gli diventa rosso?

In teoria dovrebbe essere così.
Ma no, perché quell’infetto è un uomo che non può essere lasciato da solo. Magari sono un padre e ho una famiglia da far campare. Magari sono un precario e devo uscire. Magari non ho lo spazio domestico per tutelare i miei.

Esattamente quello che è accaduto in Italia.
Sono isolato a casa, in quarantena, non faccio il tampone, nessuno sa come sto, e poi magari chiamo la ASL che non mi risponde perché ha tante telefonate. Folle.

Quindi per questo la app non va bene.
Le app vanno benissimo, possono essere un grande supporto, ma serve un servizio umano. Serve una tutela a distanza che non si può realizzare solo con un algoritmo o con le faccine sul telefonino.

Ma serve un personale medico?
Nooo… Non devono essere necessariamente medici e infermieri. Devono andare a prendere la temperatura con lo scanner. Fare telefonate. Monitorare. E se ci sono problemi passare la palla ai medici.

E in quanto si mette su questa cosa da zero, in un paese dal Congo in su?
Bisognava partire al giorno uno a metterlo in piedi. Stiamo parlando di due mesi fa.
Quindi, ricapitando, facciamo l’esame di Fase 2 ai governatori, applicando la legge delle tre T.
Hai l’ospedale Covid e l’albergo dedicato? Hai già l’esercito dei tracciatori? Hai test e tamponi? Hai regole chiare e intellegibili per chi torna al lavoro? Hai le terapie intensive pronte? Hai modo di avere dati costantemente aggiornati su casi e decessi? Se non sei preparato devi sapere che stai correndo un rischio grave.

Molti virologi sono scettici sulla possibilità di attuare la Fase 2.
Io non sono d’accordo. In primo luogo perché bisogna tornare al lavoro. Il fatto di essere un epidemiologo non può esimermi dal sapere che si muore anche di recessione.

Il Governo apre molti spazi.
Ho visto le stime: questa Fase 2 porterà di nuovo in giro 4,5 milioni di italiani. È una cifra sostenibile. Anche perché tutti i luoghi pubblici restano chiusi.

Secondo lei possono riaprire i ristoranti e i bar?
Se hanno spazi all’aperto è meno rischioso.

Il caldo ci aiuterà?
L’estate potrebbe portare un po’ tregua. Io penso che in queste condizioni stare all’aperto sia meglio che stare al chiuso.

Un pericolo da evitare.
Ho paura dei locali con l’aria condizionata. Mi preoccupano più i luoghi di vacanza affollati al mare, soprattutto senza presidi medici, più che la gente vada al mare.

Parliamo ancora della terza T.
Io vorrei che ci fossero ospedali Covid in tutte le regioni, soprattutto in Sardegna e Sicilia.

E il rischio della seconda ondata?
Se siamo bravi non ci sarà. Noi siamo in grado di cambiare la traiettoria dell’epidemia. Noi possiamo evitare che l’uragano arrivi.

Quando potremo dire che tutto torna come prima?
Non c’è una data, ma un obiettivo. La risposta è: solo quando avremo più farmaci e il vaccino.

Quindi, sulla Fase 2, il suo è un sì, ma condizionato.

Per tornare al lavoro bisogna avere queste condizioni di contorno.

Alcuni dicono: “Non ci sono le risorse, non c’è il tempo”.
È un altro ragionamento folle. Le posso fare l’ultimo esempio? Bisogna immaginare per un attimo che non si tratti di un virus.

E cosa cambia?
Se ci fossimo ritrovati in una guerra dove si sono già contati 20mila morti, 100mila feriti, migliaia di dispersi non avremmo perso un secondo.

Dice?
Ma certo. Avremmo già intere fabbriche che costruiscono carri armati invece che automobili, avremmo già corpi volontari arruolati e intruppati, avremmo linee di difesa multiple, migliaia riservisti mobilitati!

Dovremmo, infatti.
(Sospiro). E allora perché non accade?